venerdì 13 marzo 2015

Un cuore così bianco

Ho vergogna di avere un cuore così bianco – diceva Lady Macbeth riferendosi alla propria innocenza/ingenuità/ignoranza quando seppe dell’assassinio del re da parte del marito.

Fino a quando un cuore è bianco? Finché ignora il peccato altrui, dal quale si è contagiati anche solo attraverso la conoscenza, che è già partecipazione.
Nella tradizione teatrale giapponese Nō il colore bianco è associato al lutto. La morte è paragonata ad una pagina bianca, mentre la vita è l’inchiostro nero che riempie e anima quel nulla.
La sensazione di morte aleggia nell’atmosfera del romanzo da subito, da prima che il protagonista nasca (sia nell’ambito del tempo della narrazione, sia nella mente del narratore – che dice di non costruire mai una mappa delle storie che scriverà, ma si fa condurre dai personaggi man mano che escono dalla sua penna).
Il primo capitolo è dedicato, infatti, al suicidio della bambina-non più bambina che non poté mai essere la zia del protagonista. Dopo questa breve e intensissima scena, all’inizio del secondo capitolo (in realtà non ci sono capitoli: il libro è diviso in parti non numerate né titolate) nel giro di mezza pagina il lettore viene informato dei personaggi principali, dei rapporti familiari che intercorrono fra loro e dello stato d’animo predominante del protagonista: l’angoscia dovuta a “presentimenti funesti” che lo accompagnano fin dalla vigilia del proprio matrimonio (avvenuto poco più di un anno prima del momento in cui si svolgono i fatti).
Si è subito coinvolti nella sua inquietudine e titubanza attraverso un linguaggio pieno di “forse”, di “se”, di verbi al condizionale, di atteggiamenti misteriosi di alcuni personaggi che sembra vogliano dire e non dicono (almeno fino a un certo punto), in primis Ranz, il padre del protagonista (del quale scopriremo il nome – Juan – ben oltre la metà del libro).
Ranz, nonostante la somiglianza estetica col figlio, ha un carattere nettamente diverso: a differenza di Juan, che è estremamente razionale e sembra non lasciarsi coinvolgere mai più di tanto dal punto di vista emotivo (per gran parte del libro ci si chiede se e quali sentimenti nutra nei confronti di chi lo circonda), Ranz ha verve, i suoi occhi “limpidi come grandi gocce di liquore o di aceto” sono animati dal fuoco della passione, è un amante dell’arte – ha lavorato per tutta la vita nei musei, arricchendosi grazie tanto alla sua arguzia quanto a dei sapienti magheggi in combutta con un amico falsario – e proprio il giorno delle nozze di suo figlio, ha con lui un dialogo ambiguo a proposito dei segreti che esistono e si mantengono tra marito e moglie, che instilla nel lettore curiosità: - Sei sposato. E adesso? …Da questo momento si sviluppa una curiosità crescente non solo verso Ranz, ma anche verso Luisa, la moglie di Juan. Si è portati a dubitare di tutti i personaggi. Chi nasconde segreti? Chi ha fatto o farà qualcosa di terribile? I presentimenti funesti di Juan hanno ragione d’esserci? 
L’atmosfera inquieta è accompagnata dalle superstizioni: le donne cantano tra i denti la canzone che gli cantava sua nonna da bambino per mettergli “allegramente” paura – è come se le donne partecipassero di segreti iniziatici e magici che agli uomini sono preclusi – Ranz era considerato sfortunato dalla suocera, per la sua triplice vedovanza; per la stessa ragione, invece, il suocero lo guardava con sospetto superstizioso, appunto e con un timore forse irrazionale.
Una delle caratteristiche di questo libro stra-ordinario che mi ha colpita è la ripetitività, anch’essa inquietante, delle azioni compiute da personaggi diversi e distanti nel tempo, nello spazio e nei rapporti. Proprio come una cantilena di sottofondo, le parole o le azioni dapprima si ripetono in modo apparentemente casuale, come se solo Juan le notasse grazie alla sua particolare sensibilità (o deformazione professionale) dovuta anche al suo mestiere: è interprete e traduttore, come sua moglie, dunque attento alle sfumature di significato tanto delle parole e dei silenzi, quanto delle azioni. Man mano che ci si addentra nella storia, questa ripetitività si fa più marcata e frequente, fino a giungere al suo apice nel racconto-fiume di Ranz. A questo punto ci si immedesima sia con chi, dopo aver taciuto per troppo tempo, non può frenare la lingua, sia con l’ascoltatrice (Luisa) che aveva insistito tanto per SAPERE, ma quando sarà costretta ad ascoltare, vorrebbe tornare indietro, infatti è quasi un’implorazione la sua gentile e ripetuta frase: - Non me lo racconti se non vuole – Ma è troppo tardi: non può scegliere di non sentire.
Qui, con la mediazione di Juan, che ascolta il dialogo tra suo padre e sua moglie dalla camera da letto, senza sapere se i due sanno della sua presenza (altra fase d’incertezza), l’autore riunisce tutti i fili che finora sembravano isolati in un’unica tela e dimostra – come farà dire a Juan quasi alla fine della storia – quanto sia inutile stabilire CHI dica COSA o chi non lo dica né faccia: il mondo è fatto di storie che si ripetono identiche a se stesse, per quanto chi le viva si affanni, scegliendo – o credendo di farlo – ed è come se niente di ciò che succede succeda davvero.
Gloria, Teresa, Juana, Luisa, Miriam, Berta, Nieves, Juan, Ranz, Guillermo, Custardoy, Villalobos, Bill… sono solo nomi! L’azione del singolo è irrilevante. Ciascuno potrà fare domani ciò che uno ha fatto oggi. È pur vero che tutto ciò potrebbe essere un modo dell’autore per dire che tutti i personaggi esprimono pensieri dell’autore stesso, da qui l’irrilevanza della loro individualità e la possibilità di creare azioni ripetute.
Alla trama, splendidamente strutturata, con un senso d’inquietudine e di catastrofe imminente, che spinge a sfogliare le pagine voracemente, fanno da contraltare le molte divagazioni del protagonista, mai dovute a un mero sfoggio intellettuale, ma circostanziate alle situazioni e ai ruoli; queste costringono a rallentare la lettura per comprendere e metabolizzare i concetti profondi sulle dinamiche interpersonali espressi da Marias, sempre con un tono riflessivo e mai saccente. È il caso, per esempio, del dialogo sull’amore - la gente ama perché la si obbliga ad amare - tra la statista inglese (che sarà riproposto anche da Berta e Bill) e l’alto funzionario spagnolo, o quello centrale a proposito della citazione shakespeariana del titolo.
Alla fine, dopo tanti presagi oscuri, dopo tanta incertezza è come se Yin e Yang tornassero in equilibrio. Non è detto che ci sia un happy ending, una fine non c’è. Semplicemente la vita dei personaggi va avanti, con tutto il carico di dubbi nei confronti del futuro che le persone reali hanno nella vita quotidiana. Se si chiude l’ultima pagina con un senso di amarezza e di sconfitta è perché viene il dubbio di essere noi lettori, personaggi di un libro. Che anche noi non stiamo recitando un copione già agito da altri?


Serena Giattina